Mission: Impossible, l’excursus sulla saga cinematografica

Nata dall’omonima serie TV anni ’60, la saga cinematografica di Mission: Impossible – avviata nel 1996 e tuttora in corso – segue le spericolate missioni dell’agente Ethan Hunt (Tom Cruise) e della sua squadra IMF, in un crescendo di azione “analogica” a dir poco rivoluzionaria. Ogni capitolo mixa thriller spionistico, gadget avanguardisti e set memorabili con trame incentrate su doppi giochi e conti alla rovescia inarrestabili scanditi dal riconoscibilissimo main theme musicale di Lalo Schifrin. Cambiando continuamente registi e atmosfere (da Brian De Palma a Christopher McQuarrie), questa saga ha trovato quella quadra tra personalità registica e formula vincente che ne ha sancito il meritato successo.
Mission: Impossible (Brian De Palma, 1996)
Persino in trasferta alimentare, Brian De Palma porta il valore aggiunto che ci si aspetta da un regista del suo calibro. Più che l’immaginario di James Bond, l’apripista della saga aggiorna le spy-stories hitchcockiane alla società della sorveglianza e delle identità fittizie post-Guerra Fredda. Le qualità di De Palma nella costruzione della tensione (come dimenticare la sequenza del caveau della CIA, con Tom Cruise che si libra in aria attaccato a un cavo sottile retto da Jean Reno?) compensa un intreccio spionistico basico, raccontato comunque con ritmo e ironia dall’accoppiata David Koepp/Steven Zaillian. Tant’è che l’inseguimento finale, che nei seguiti non avrebbe sfigurato, in questo caso pare quasi stridere con l’impianto generale che ha avuto il film fino a quel momento.
Mission: Impossible II (John Woo, 2000)
C’è l’inizio pacato che poi deraglia in adrenalina a fiotti. Ci sono tantissimi e brutali slow motion, le doppie pistole, gli inseguimenti in moto, vetri e nitroglicerina che esplodono, le arti marziali e le colombe. In poche parole: John Woo. Se le precedenti e le successive opere del maestro (con la felice eccezione di Face/Off) poco avevano da condividere con i traguardi segnati sotto l’egida di Tsui Hark, M:I 2 è a tutti gli effetti un film di Woo trapiantato a Hollywood. Perfettamente dentro i ranghi della recitazione fisica che lo contraddistingue, Tom Cruise convince molto più che nel predecessore, e il sinuoso corpo di Thandie Newton ne fa da abbacinante contraltare. Dopo Il Gladiatore, Hans Zimmer si fa nuovamente spalleggiare da Lisa Gerrard con una soundtrack al solito efficace nel potenziare immagini al cardiopalma. Senza dubbio il capitolo della saga più ingiustamente sbertucciato, quando in realtà non sfigura (e a tratti addirittura supera) gli ottimi sequel da Brad Bird in giù.
Mission: Impossible III (J.J. Abrams, 2006)
Capitolo transitorio, in cui J.J. Abrams copia lo stile registico di Michael Bay (assenza di compromessi nella saturazione cromatica, inquadrature e stacchi rapidi di montaggio, lens flare sparati, product placement un tanto al chilo…) e traccia il percorso successivo della saga, dal senso per la coralità all’orizzontalità narrativa in stile televisivo (ambito nel quale Abrams è, a torto o ragione, pioniere). Se sul fronte della frenesia e della spettacolarità il film è certamente godibile, gli aspetti narrativi latitano. Si predilige l’azione pura alla componente spionistica, non ci sono intuizioni visive che lasciano davvero il segno, le parentesi amorose (nel tentativo di rifarsi a certi cicli bondiani) sono stucchevoli e ininfluenti, il cattivo non ha spessore (se non quello recitativo del compianto Philip Seymour Hoffman). Nel complesso il film è un godibile giocattolone miliardario che sa far leva sul fascino delle location esotiche (anche se certe sezioni ambientate in Italia scivolano nell’imbarazzo), ma non va oltre una striminzita sufficienza che ne fa un netto passo indietro rispetto ai più autoriali predecessori.
Protocollo Fantasma (Brad Bird, 2011)
La scena dell’intrusione “olografica” al Cremlino descrive perfettamente le due idee con cui J.J. Abrams produttore stabilisce il futuro della saga di Mission: Impossible: proseguire sui binari dell’orizzontalità televisiva, il rimodernamento digitalizzato dei prototipi di De Palma e Woo. Lo fa costruendo attorno a Ethan Hunt una squadra estremamente collaborativa e necessaria all’avanzamento della missione, pigiando al contempo sulla saturazione di gadget tecnologici, senza però dimenticare il valore dei silenzi nella combustione della tensione, dei montaggi alternati che sovrappongono gli spazi filmici, dei travestimenti analogici come protesi della realtà falsata, del corpo sempre più prestante di Tom Cruise. La scelta di Brad Bird in sedia di regia è tanto inaspettata quanto vincente: il genietto di casa Pixar inietta un tale riuscito concentrato di ironia fumettistica, senso per lo spettacolo (tutto il meglio del film viene sfoderato nello sbarco a Dubai) e dimestichezza con il digitale in un solo film. E poco importa se nella lunga sezione indiana il racconto perda un po’ di smalto.
Rogue Nation (Christopher McQuarrie, 2015)
Rogue Nation è forse il capitolo della saga che più ammicca alla controparte bondiana. Infatti non è un caso che l’anno di uscita in sala sia il medesimo di Spectre: entrambi i film hanno il sapore vintage e l’andamento delle eleganti spy-stories britanniche classiche, entrambi fanno spostare i personaggi da un luogo all’altro a caccia di una virulenta organizzazione criminale che opera su scala globale. Il soggetto di Rogue Nation è poco più che un esile canovaccio per giustificare sequenze al cardiopalma come l’inseguimento in Marocco, ma Christopher McQuarrie (sia regista sia sceneggiatore) fa funzionare egregiamente la chimica tra tutti i membri del team di Ethan Hunt e compie un piccolo miracolo con la caratterizzazione di Ilsa, donna misteriosa e sfuggevole che la new-entry Rebecca Ferguson interpreta con grinta. Per quanto riguarda la resa dell’azione, McQuarrie conduce il gioco con spirito hitchcockiano, firmando almeno una sequenza che da sola merita l’etichetta di “capolavoro”: quella dell’opera, superbo taglia&cuci di inquadrature voyeuriste e tesissime prospettive che orientano lo sguardo all’interno del backstage.
Fallout (Christopher McQuarrie, 2018)
La vetta della saga nel post-Abrams, nonché un trionfo del blockbuster funambolico. La sceneggiatura costruisce un arzigogolato intreccio che coniuga perfettamente l’anima spionistica a canoni dell’action al passo con i tempi. Tanto che a tratti si scorgono, tra un omaggio e l’altro a Ian Fleming, addirittura echi del Christopher Nolan più maturo (complice ricorso arioso e d’impatto del formato IMAX). McQuarrie regista si lascia alle spalle l’eleganza dallo stampo britannico di Rogue Nation, abbraccia la propria indole muscolare e manifesta ipertrofia cinetica in una rosa di sequenze una più memorabile dell’altra. Soprattutto il vertiginoso duello tra elicotteri in Kashmir con conseguente scazzottata sul dirupo, dove McQuarrie remake-izza Top Gun girandolo meglio di Tony Scott e anticipando in più di una soluzione visiva il notevole Joseph Kosinsky. A un Tom Cruise sempre più bigger-than-life fa da contraltare il miglior Henry Cavill di sempre, nei panni del baffuto, perfido agente doppiogiochista. Di ritorno da Rogue Nation, Sean Harris fa leva su una faccia inquietante e dà vita al Charles Manson della saga. Musiche pulsanti e azzeccatissime del sodale zimmeriano Lorne Balfe.
Dead Reckoning (Christopher McQuarrie, 2023)
Ethan Hunt contro l’IA. Dead Reckoning è la resa dei conti ravvicinata e definitiva tra analogico e digitale, tra vero e percepito, tra carne e algoritmo immateriale. Il focus dell’operazione non è tanto l’esasperazione della grandeur action (vedi il lungo epilogo sull’Orient Express, da stringersi ai braccioli della poltrona), quanto l’esaltazione tangibile dei legami umani in un mondo sempre più interconnesso, settorializzato e oscurato dall’utilizzo irresponsabile della tecnologia. Si vede quanto Tom Cruise & Co. tengano al progetto, quanto il loro cuore pulsi sotto ogni anfratto di una trama densa, intricata e di grande attualità metacomunicativa. Poi si può discutere sulle prolissità dialogiche di alcune scene o sul vistoso buco di sceneggiatura che dà il la all’ennesimo stunt da antologia del divo Cruise, ma di ben maggior efficacia (tanto da risultare persino toccante) è l’introduzione di una spaurita e sfuggevole Hayley Atwell a supporto della squadra di veterani. O il grande potenziale iconografico della Paris impersonata da Pom Klementieff (assassina acrobata truccata come Pris di Blade Runner), o il semplice gusto per la spy-story piena d’azione, ironia e gustose strizzate d’occhio ai precedenti capitoli.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.