
Il nuovo film di Alex Garland, co-diretto con Ray Mendoza, porta lo spettatore nel cuore della guerra con un realismo crudo e senza filtri.
Dall’eco di Civil War alla nascita di Warfare: il nuovo sguardo di Alex Garland sulla guerra

«Noi non chiediamo, registriamo perché gli altri chiedano». Con questa battuta lapidaria, il regista-sceneggiatore Alex Garland suggellava il senso ultimo di una delle opere più riuscite del 2024, quel Civil War in cui l’assenza di contesto e l’annientamento altrui fungevano da traiettorie per un Apocalypse Now on the road, con le arterie d’asfalto americane in luogo del fiume Nung. Si trattava di un viaggio introspettivo mascherato da action-thriller, con protagonisti dei reporter che narrano la guerra in prima persona e in presa diretta, la follia di chi prende in maniera autonoma la decisione di uccidere i propri simili.
Con campi lunghissimi di bellezza magnetica, sfocature e colori acidi, Alex Garland catturava un film mortifero d’assoluto nichilismo: l’atto fotografico non ha più alcuna valenza testimoniale, i reporter possono eguagliare i militari in crudeltà, le fazioni in lotta non si riescono più a distinguere.
Il progetto Warfare nasce sulle fondamenta di quella riflessione (visionaria?) sul conflitto interno americano, dall’incontro tra Garland e Ray Mendoza, già consulente militare, appunto, per Civil War, nonché ex Navy SEAL qui promosso a co-regista. Una scelta atta a sottolineare la volontà di Garland di ancorare il dramma al realismo operativo più oggettivo possibile.
La genesi dell’opera

Ambientato interamente all’interno di un edificio urbano durante una missione nel 2006 a Ramadi, Iraq, Warfare attinge dalle esperienze personali di Mendoza, seguendo un plotone di Navy SEALs. L’operazione degenera: un IED esplode e i soldati si trovano intrappolati e feriti. Fuori, nemici invisibili li circondano, dentro il tempo si dilata, le comunicazioni si fanno sempre più frammentate e le munizioni si esauriscono in fretta. I militari si trovano ben presto a fare i conti col fuoco avversario e con il logoramento psicologico, in attesa dei soccorsi. Novanta minuti di attesa estenuante, in tempo reale, i più lunghi della loro vita.
Girato in tempi relativamente brevi e con un budget contenuto stanziato da A24, il film concentra le attenzioni del pubblico su pochi attori e un’unica location, privilegiando la fisicità e la precisione tattica della messincena. Gli attori, tra cui Joseph Quinn, D’Pharaoh Woon-A-Tai, Will Poulter, Kit Connor, Cosmo Jarvis, sono stati sottoposti da Mendoza a quasi un mese di addestramento ispirato ai programmi per SEALs, finalizzato a restituire con autenticità le condizioni di stress del campo di battaglia.
Quando il war movie annulla il filtro dello spettacolo

Warfare è, in fondo, “un Black Hawk Down tra quattro mura”. Questo controcampo militaresco di Civil War ne prosegue il suo discorso sull’assenza di contesto: non interessano le ideologie dietro l’intervento bellico, ma l’esperienza di corpi intrappolati in un’architettura ostile, sotto il fuoco di un nemico saggiamente lasciato fuoricampo. Non fosse per l’inequivocabile didascalia iniziale, Warfare potrebbe essere ambientato ovunque: Iraq, Vietnam, Mogadiscio o qualsiasi altro teatro di guerriglia urbana nel mondo, combattuta casa per casa, con supporti satellitari e armi sempre più potenti.
Il risultato può descriversi come un surrogato astratto – eppure brutalmente tattile – di ogni guerra contemporanea, privo di retorica a stelle e strisce (non dimentichiamo che Garland, come Scott, è britannico) e interessato unicamente a un’esposizione schietta dell’annientamento fisico e mentale: le urla dei feriti accompagneranno la visione senza fare sconti. Le immagini dei reali membri del team, che scorrono sui titoli di coda, offrono con insistenza un memento oggi più che mai necessario: e come espresso in calce da Gianni Canova nella sua recensione, “Se c’è una possibilità che il cinema possa fungere da antidoto contro l’insensatezza della guerra, di tutte le guerre, forse Warfare si muove nella giusta direzione”.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.
