
Three (2002) rappresenta un esperimento corale del cinema horror asiatico dei primi anni Duemila: tre mediometraggi che offrono un viaggio attraverso memorie evanescenti, folklore e inquietudini urbane.
Una gemma nascosta
Quando si discute di Three… Extremes (2004), spesso si dimentica che l’antologia di Fruit Chan, Takashi Miike e Park Chan-wook rappresenti, in realtà, l’evoluzione di un progetto precedente, meno noto ma concettualmente affine: Three (2002). Distribuito in occidente con il fuorviante titolo Three… Extremes 2 per sfruttare il successo del seguito, il trittico originario adotta la stessa formula – tre mediometraggi di registi asiatici raccolti in un unico contenitore – ma si colloca su un piano meno radicale. Qui, infatti, l’assenza di firme dal pedigree autoriale paragonabile a quelle del secondo capitolo si traduce in un’opera più contenuta, che rinuncia quasi del tutto a sottotesti politici o critici per privilegiare l’horror atmosferico.
A livello formale il lavoro globale lascia a bocca aperta. Merito delle gelide sgranature operate da ben tre direttori della fotografia (fra cui Christopher Doyle, storico collaboratore di Wong Kar-wai) e di un’attenzione maniacale per le scenografie, che vanno a conferire un’identità unitaria alla varietà dei contesti. Che si tratti degli anonimi conglomerati urbani sudcoreani, delle campagne thailandesi immerse nell’oscurità o delle fatiscenti palazzine popolari hongkonghesi, l’ambiente è sfondo e insieme personaggio, un carattere fondamentale nella cifra estetica dell’antologia. Una presenza che plasma la percezione dello spettatore e modella il terrore stesso.
Memories (diretto da Kim Ji-woon)

Un uomo (Bo-seok Jeong) è tormentato da incubi ricorrenti sulla moglie recentemente scomparsa e dall’incapacità di ricordare i dettagli della perdita. La donna (Kim Hye-soo), nel frattempo, si risveglia nel bel mezzo di una strada abbandonata, anch’essa affetta da amnesia. Gradualmente, i due consorti inizieranno a mettere al giusto posto i tasselli della vicenda, fino ai risvolti sanguinolenti legati a un appartamento situato in un complesso residenziale vuoto chiamato New Town.
Prima incursione di Kim Ji-woon nell’horror, con un anno d’anticipo sugli egregi risultati di A Tale of Two Sisters, Memories costruisce una storia di traumi del passato estremamente convulsa e sincopata, che a colpi di scene frammentate, dilatazioni esasperate dei tempi filmici nei momenti di vero orrore e improvvisi cali di frame trasmette egregiamente lo spaesamento di personaggi la cui memoria è inaffidabile. Interessante anche l’utilizzo della tavolozza cromatica e degli spazi scenici: l’immersione in scenari urbani dominati dal vuoto e da tenui tinte blu accresce la patina ultraterrena che il regista sudcoreano spalma sui fotogrammi.
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Il mediometraggio si inscrive con devozione nei codici dell’horror psicologico asiatico dei primi anni Duemila, tant’è che i palati più esigenti potrebbero tacciarlo di essere derivativo. La figura dello spettro femminile dai capelli corvini, l’ossessione per la maternità violata, il motivo del telefono che veicola l’angoscia rimandano inevitabilmente a modelli consolidati da Ringu (Hideo Nakata, 1998) o Audition (Takashi Miike, 1999). Un gioco di rimandi che, considerato il titolo del film, può essere letto quasi come un cortocircuito voluto: il ricordo che si ripete, l’immagine che ritorna, l’eco dell’iconografia horror asiatica.
The Wheel (diretto da Nonzee Nimibutr)

Il secondo episodio dell’antologia, The Wheel di Nonzee Nimibutr, si radica profondamente nell’immaginario rurale thailandese. La vicenda prende avvio dalla morte di un burattinaio (Komgrich Yuttiyong), perito fra le fiamme dopo aver annegato la moglie e il figlio. Attorno alla sua eredità aleggia la convinzione che le marionette, strumenti della sua arte, siano portatrici di una maledizione; ciò non impedisce a Tong (Pongsanart Vinsiri), maestro di danza, di impossessarsene con l’intento di trasformarle in occasione di guadagno. Il gesto, come prevedibile, innesca l’ineluttabile reazione del karma.
Sul piano narrativo, The Wheel rappresenta l’anello debole del trittico. La struttura si affida a un canovaccio già ampiamente frequentato dal cinema dell’orrore – l’oggetto maledetto, la punizione karmica – e diluisce in appena quaranta minuti un numero eccessivo di figure, che raramente riescono a suscitare un autentico coinvolgimento emotivo. Tuttavia, ridurre il corto a semplice esercizio convenzionale rischia di tralasciare la sua funzione più significativa: Nimibutr sembra deliberatamente rinunciare alla profondità tematica per proporre un compendio del cinema horror thailandese, fortemente radicato nelle credenze popolari e al contempo “addomesticato” per un pubblico internazionale. In questo senso, The Wheel svolge un ruolo di mediazione culturale: un’introduzione decorosa, seppur semplificata, a una cinematografia ancora oggi marginale nella distribuzione globale.
Dove The Wheel invece funziona alla grande è nell’estetizzazione della Thailandia rurale e nella fotografia terrosa, caratterizzata da una costante dialettica di pioggia e chiaroscuri tali da dare l’illusione di assistere a una costola pop di Apocalypse Now. La giungla prende vita in tutta la sua spietata bellezza, tra verdi smeraldo e miasmi di un terrore ancestrale.
Going Home (diretto da Peter Chan)

Il trittico si chiude con Going Home, diretto da Peter Chan e scandito dai contrasti chiaroscurali di Christopher Doyle, generalmente considerato l’episodio più riuscito dell’antologia. La trama inscena l’incontro fra due figure speculari: Wai (Eric Tsang) è un poliziotto sfatto e sovrappeso che si è trasferito assieme al figlio in un faticente condominio di Hong Kong. Qui vi abita pure Yu (Leon Lai), un chirurgo intenzionato a riportare in vita la moglie, morta di cancro da tre anni e tenuta a mollo in una vasca riempita di acqua e particolari erbe medicinali. Le vite delle due famiglie comincieranno a intrecciarsi quando i rispettivi figli entreranno in contatto, innescando una spirale di tensione e rivelazioni.
La vera forza di Going Home risiede nel trascendere i confini del genere. Chan intreccia il thriller psicologico ai dettami della ghost story cinese tradizionale, orientandosi verso un racconto di necrofilia inaspettatamente commovente. La paura lascia spazio all’empatia, mentre il soprannaturale diventa pretesto di elaborazione del lutto, di attesa sulla fragile linea che separa la vita dalla morte. Fondamentale, qui, il ruolo dell’immagine fotografica, evocata più volte come tema interno, che assume la funzione di specchio dell’esistenza: impressione che trattiene un istante, incapace tuttavia di restituirne la sostanza vitale.
Un esperimento filmico riuscito

Pur non gettando ami in profondità come il ben più celebrato sequel, Three è comunque un esperimento funzionalissimo, capace di suscitare più di qualche brivido o scheggia di vera inquietudine. Laddove Memories evoca smarrimento e The Wheel cerca il radicamento nella tradizione, Going Home trasfigura l’orrore in intimità. È in questo coniugare l’estetica elegante a un contenuto profondamente umano che risiede la ragione per cui Three si può considerare l’ennesimo colpo ben assestato dell’horror orientale.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.
