Squid Game 3, la recensione: un cerchio si chiude e un altro si apre

Squid Game 3, la recensione: un cerchio si chiude e un altro si apre
Terzo e ultimo atto del k-drama iniziato nel 2021, la stagione conclusiva di Squid Game chiude le danze con un alto tasso di drammaticità, tuttavia lasciando spazio a un finale decisamente aperto che, negli ultimi frame, anticipa quello che potrebbe essere il futuro del franchise. ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER.
La trama
Fallito il colpo di mano architettato per fermare i giochi prima del punto di non ritorno, Gi-hun (Lee Jung-jae) si sente in colpa per la ribellione da lui fomentata e costata la vita a diversi giocatori, incluso il suo amico Jung-bae. Così, il quarto gioco ha inizio ed è volto a decimare i concorrenti ancora rimasti in gara. Nel frattempo, l’ex detective Jun-ho continua, insieme al commando da lui formato, la ricerca dell’isola, non sapendo che il capitano della nave che li sta guidando nella spedizione è uno dei soldati dei giochi, e che sta facendo di tutto per non farli arrivare a destinazione.
«Non siamo cavalli. Siamo esseri umani»
Per parlare di Squid Game 3 e, al tempo stesso, condensare quello che è il suo animo in questo atto finale, bisogna per forza soffermarsi sulla frase pronunciata da Gi-hun nei suoi ultimi istanti di vita, prima di buttarsi nel vuoto per salvare la vita alla figlia neonata della giocatrice 222. «Non siamo cavalli. Siamo esseri umani. Gli esseri umani sono…», una frase tanto perentoria quanto volutamente lasciata in sospeso, che racchiude tra le sue parole tutto il senso di Squid Game.
Se l’intera opera è pensata per essere una fenomenale critica alla società odierna sempre più scevra di veri valori e preda di una bieca violenza, depauperata di empatia, altruismo e attenzione verso il prossimo, in questa terza stagione si assiste, seppur tra la cupezza notevole e l’intensa drammaticità, a una possibilità, alla parvenza di umanità che, nonostante tutto, riesce a sopravvivere, a farsi sentire in mezzo a cotanto orrore che l’uomo stesso è capace di generare.
Squid Game, fin dagli albori, non ha fatto sconto alcuno nel mostrare ciò di cui gli umani possono essere capaci se messi alle strette oppure se, il loro dio, si chiama denaro. Una combinazione, questa, che sta proprio alla base narrativa dell’intera serie senza, tuttavia, essere una peculiarità morbosa o gratuita per il gusto di vedere voyeuristicamente su schermo atti inenarrabili. Azioni, queste ultime, che vanno ad alimentare, però, il diletto di ricchi annoiati incapaci di dare valore alla vita altrui, tanto da scommettere sui giocatori come se fossero, appunto, cavalli da corsa, gli stessi su cui Gi-hun scommetteva in quella vita pre-Squid Game e che, adesso, sono stati rimpiazzati proprio dagli essere umani.
La rinuncia alla disumanizzazione e il riconoscimento del proprio sé
Ma Gi-hun non rinuncia alla sua umanità anzi, rigetta quella disumanizzazione che gli viene offerta su un vassoio d’argento nella sera che precede l’ultimo gioco, quello in cui la più totale bestialità umana può (e per certi versi) deve avere la meglio per garantire la sopravvivenza. In questo, nel riconoscimento del proprio essere diverso dall’altro da sé, di non essere un cavallo da corsa bensì un umano, Gi-hun diventa il vero e proprio eroe proppiano di Squid Game.
Nella prima stagione, si è avuto modo di conoscere un personaggio immaturo, scanzonato, un uomo che ha fallito proprio come uomo, figlio e padre, che viene cambiato dagli eventi vissuti che gli permettono di imboccare, nell’atto II, una strada fatta di “crescita” tanto interiore quanto esteriore. E in questa terza stagione, Gi-hun porta a compimento la sua metamorfosi, ribellandosi a se stesso, ai giochi e a quella disumanità che ha pervaso i concorrenti del gioco finale.
Negli ultimi due episodi, si assiste a una catarsi durante la quale egli diventa uomo, figlio e padre (putativo), adempiendo a saldare un enorme debito con tutte le persone che hanno fatto parte della sua vita e verso le quali, purtroppo, non è mai stato capace di essere un sicuro punto di riferimento. In un atto di extrema ratio, Gi-hun rinuncia alla sua esistenza, espiando le proprie colpe, passate e recenti, e immolandosi per una creatura innocente su cui riversa la speranza che il mondo possa cambiare.
Un finale sospeso che lascia aperte le porte per il futuro
Oltre alla frase pronunciata da Gi-hun prima di suicidarsi, a rimanere in sospeso è il finale stesso di Squid Game 3. Se da una parte si chiude, seppur in maniera piuttosto amara, un cerchio narrativo, con il Frot Man/In-ho che vola fino a Los Angeles per consegnare alla figlia di Gi-hun il montepremi del primo gioco a cui ha partecipato nonché gli effetti personali del padre indossati nel secondo, è pur vero che proprio da questa azione se ne apre un altro.
Con il cameo di Cate Blanchett nei panni di una reclutatrice degli Squid Game (rumors parlano di Squid Game America e, tra i nomi per la regia, si fa quello di David Fincher), intenta a giocare a ddakji in un vicolo di Los Angeles con un barbone, è in quello scambio di sguardi tra lei e In-ho, seguito da un sorriso compiaciuto di lei, che Squid Game 3 spiazza lo spettatore. Oltre al carico di drammaticità, alle cruente uscite di scena e alla commovente dipartita di Gi-hun, a destabilizzare lo spettatore è la certezza che, nonostante tutto, nell’interiorità umana il male continua a essere vivo e a muoversi, facendo di Squid Game un’opera televisiva che è il riflesso speculare della società odierna.

Divoratore accanito di film, serie TV, libri e manga, ama gli anime (su tutti, Neon Genesis Evangelion) e i videogame, senza dimenticare la sua passione per la montagna. Autore di diversi saggi monografici, è un consulente editoriale con esperienza decennale, fotografo freelance e redattore per differenti siti web.
Si conclude con un finale aperto una delle serie evento di questo decennio in corso. Vediamo cosa si inventeranno per il futuro.