PTU, la recensione del film di Johnnie To

PTU, capolavoro di Johnnie To ispirato a Cane randagio di Kurosawa, è un titolo che riflette la condizione del noir hongkonghese all’indomani dell’handover. Il film è stato presentato all’ultima edizione del Far East Film Festival di Udine in un nuovo restauro in 4K.
Che si tratti della New York di Martin Scorsese (Fuori orario), della Los Angeles imbevuta d’immaginario Anni Ottanta di Landis (Tutto in una notte) o, appunto, della Hong Kong labirintica e insonne di PTU, il risultato non cambia. Le notti metropolitane, quelle brulicanti di vita e dove tutto può accadere (anche se quel “tutto” non sempre ha una logica), non perderanno mai il loro grande, particolarissimo fascino. Capolavoro assoluto del maestro del noir hongkonghese Johnnie To, PTU scorre sullo schermo con l’andamento sincopato di un sogno bagnato dai neon, pervaso da un senso di incertezza latente e ironia nera che esplodono nell’arco di una sola notte. Un noir urbano d’impeccabile fattura, culminante in un finale al rallenty di quelli che avrebbero reso fiero Sam Peckinpah.
La stilizzazione sospesa del noir
PTU racconta una storia semplice e al contempo stratificata, goduriosa e affettuosa nell’omaggio a quel Cane randagio di kurosawiana memoria che, negli anni Quaranta, spalancò le porte del Sol Levante al thriller procedurale. Il protagonista è il sergente Lo (Lam Suet, caratterista e collaboratore di lunga data di To), che smarrisce la pistola d’ordinanza durante una buffonesca rissa con giovani membri di una gang. La scomparsa dell’arma chiaramente può mettere a repentaglio la carriera del poliziotto, e ancor peggio minacciare il già fragile, tacito equilibrio tra le forze dell’ordine e la malavita locale. Il sergente Mike (Simon Yam), capo della PTU e amico di Lo, decide di aiutarlo a recuperare la pistola prima dell’alba, ma già l’inscalfibile ispettrice Leigh Chen (Ruby Wong elegantissima in outfit à la Michael Mann) è sulle loro tracce, insospettita dai loro movimenti.

La ricerca della pistola è una scusa, uno stralcio di trama che a Johnnie To occorre per porre enfasi su uno sguardo notturno stilizzato. PTU restituisce una Hong Kong inaspettatamente deserta e spaziosa. Auto cromate sfrecciano sotto la pioggia battente, tra strade illuminate dai lampioni come fossero palcoscenici teatrali di vetro e cemento. i personaggi si muovono tra sale giochi abbandonate, bar fatiscenti e corridoi deserti avvolti d’ombre cariche di minaccia. Un universo astratto e scarnificato, dominato da silenzi e sguardi trattenuti, estenuanti. Persino i dialoghi sono ridotti all’osso, perché è la sensualizzazione dei gesti, dello sfregolio dell’asfalto, dei catadiottri, dei finestrini e delle attese a essere importante. Lo stesso formato widescreen esaspera la profondità di campo, e le idee di vuoto e controllo estremo che il regista voleva trasmettere attraverso le sue perfette geometrie urbane.
La firma inconfondibile di Johnnie To
A vent’anni di distanza dalla sua realizzazione, PTU rimane un lavoro estremamente solido e compiuto. Cosa ancor più sorprendente, se si considera che le sue riprese sono state frammentate nel corso di un triennio, tra la lavorazione di un film su commissione e l’altro. L’azione viene messa in secondo piano rispetto all’afflato più contemplativo, la ricerca estetica si sovrappone al contenuto, i numerosi personaggi vengono disegnati come pedine del fato. È un thriller dalla lenta combustione e che non ammicca all’azione frenetica, la cui violenza esplode fulminea e rara. E per quanto non manchino tocchi da splendida commedia degli equivoci e persino inaspettati inserti slapstick, il clima generale è di malinconia esistenziale. Una malinconia chiaramente figlia di quella disillusione post-handover, quando l’identità stessa di Hong Kong è entrata in crisi fino a rarefarsi.

PTU è molto più di un semplice film sul tradizionale rapporto chiastico tra polizia e crimine. Poche pellicole hanno meditato in modo così rarefatto e silenzioso sulle ambiguità del potere costituito. Un’opera rarefatta, bellissima, che fa della notte un teatro che incombe sui suoi attori, e dello smarrimento di una pistola il pretesto per denunciare l’instabilità del tessuto urbano. Quando la parola capolavoro ha senso.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.