Presence di Steven Soderbergh rilegge il tema delle case infestate con piglio sperimentale, tirando fuori l’ennesima riflessione formale sulle potenzialità delle immagini digitali.
Guardando a tutta la prolifica opera di Steven Soderbergh, si evince quanto sia spiccato l’interesse del regista statunitense per le relazioni interpersonali. Che si tratti della disincantata, edonista Gen X di Sesso, bugie e videotape, ma anche degli affiatati geni della truffa di Ocean’s Eleven, delle amicizie fugaci sullo sfondo bellico di Intrigo a Berlino o dell’ipocondriaca Zoe Kravitz in Kimi, nei film di Soderbergh tutti i personaggi vengono colti nell’atto di creare, consolidare o ricostruire legami – anche se talvolta gli esiti di questa ricerca sono inaspettati, persino negativi.
Nella più recente produzione soderberghiana, le analisi esistenzialiste sono andate di pari passo con una continua, sempre più radicale alternanza di produzioni ad alto budget e progetti in odore indie, questi ultimi interessati a testare limiti e possibilità delle immagini in alta definizione (vedi gli iPhone 7 di Unsane). Uscito nelle sale italiane per Lucky Red a pochi mesi di distanza da Black Bag, Presence aggiunge un tassello alla costruzione di un vero e proprio cinema di superfici, immateriale, confezionato ad hoc per un’era di isolamento digitale e assuefazione dallo streaming. In tale ottica, è simbolica e ideale la durata di 84 minuti, in controtendenza con un panorama saturo di blockbuster dalla durata monster.

La trama
Chloe Payne (Callina Liang) e la sua famiglia si sono trasferiti in una nuova casa, nel tentativo estremo di sanare le proprie fratture. La ragazza soffre di depressione dopo la morte per overdose di un’amica, la madre Rebecca (Lucy Liu) sembra indifferente alla condizione della figlia ed è inoltre coinvolta in problemi legali, il padre Chris (Chris Sullivan) cela a stento la sua frustrazione per il distacco della moglie e del primogenito Tyler (Eddie Maday), promettente nuotatore. La fragile intimità dei Payne viene filtrata attraverso lo sguardo del fantasma che infesta l’abitazione.
La soggettiva come linguaggio del trauma
In Presence — parente stretto di Kimi, non a caso anch’esso scritto da David Koepp — Soderbergh obbliga lo spettatore ad adottare il punto di vista del fantasma. Firmando la fotografia con il consueto pseudonimo di Peter Andrews, il regista di Atlanta imbastisce sinuosi piani sequenza grandangolari che mimano la percezione fluida e disincarnata dell’entità, e trasforma la macchina da presa in uno strumento analitico capace di rivelare crepe emotive e traumi irrisolti.
Contrariamente a quanto avviene coi film horror, l’angoscia non deriva da bruschi jumpscare (porte che sbattono, oggetti che cadono), semmai dalla sensazione inquietante di una costante violazione della privacy. La vicinanza voyeuristica tra la presenza e la famiglia Payne si manifesta attraverso lunghe inquadrature statiche, spesso interrotte da improvvisi stacchi in nero. Come osservato da alcuni critici, questa fusione tra occhio registico, sguardo dello spettatore e punto di vista dell’entità avvicina Presence più a Here di Robert Zemeckis che a A Ghost Story di David Lowery — il quale adottava, invece, una narrazione più marcatamente ‘in terza persona’.
La svolta thriller del finale — in un richiamo alle sintetiche rarefazioni di Effetti collaterali — arriva rapida e colpisce nel segno: niente spiegazioni superflue, nessun compiacimento narrativo, solo una risoluzione secca, essenziale, che raccorda l’equilibrio formale costruito fino a quel momento.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.

Complimenti per l’analisi molto mirata