Vent’anni fa usciva nelle sale di tutto il mondo Le crociate – Kingdom of Heaven, per la regia di Ridley Scott. Un kolossal di grande spessore, un’orchestrazione visiva e tematica che va ben oltre la semplice rappresentazione storica.
Primi anni Duemila. Nel pieno del revival hollywoodiano del kolossal storico che egli stesso ha contribuito a rilanciare con Il gladiatore, il regista britannico Ridley Scott si confronta nuovamente con quel tipo di estetica e grammatica imponenti. Ambientato nel Medioevo, Le crociate – Kingdom of Heaven (2005) si pone fin da subito come intricata analisi dei rapporti tra religione, potere e identità, collocandosi in un momento storico – l’immediato post 11 settembre – immerso in un clima di crescenti polarizzazioni tra le dialettiche religiose internazionali. Ovviamente senza dimenticare la sua natura di grande e magniloquente spettacolo.
Il progetto ha visto collaborare per la prima volta Ridley Scott e lo sceneggiatore William Monahan, qui all’esordio cinematografico ma già dotato di quell’acume drammaturgico stratificato che l’avrebbe portato all’Oscar per The Departed. Tuttavia, nonostante il sostegno produttivo iniziale, la 20th Century Fox impone all’opera un drastico taglio di oltre 40 minuti, compromettendone l’equilibrio narrativo. Solo con l’uscita della director’s cut, di oltre tre ore contro i 140 minuti cinematografici, il film trova la sua forma definitiva, degna di un riconoscimento critico tardivo e della qualifica, meritatissima, di ultimo, grande kolossal hollywoodiano degno di nota.

La trama
Francia del XII secolo. Baliano (Orlando Bloom) è un giovane maniscalco che ha appena perso moglie e figlio. Il motto “Che uomo è un uomo che non rende il mondo migliore” campeggia nella sua bottega, ma nulla sembra avere più valore per lui nella vita. L’arrivo alla sua porta di un uomo che si rivela essere suo padre biologico, il barone crociato Goffredo di Ibelin (Liam Neeson), segnerà l’inizio di una nuova svolta esistenziale. Rimasto gravemente ferito in un’imboscata, Goffredo farà in tempo ad assegnare il proprio feudo al figlio prima di spirare. Baliano giungerà in Terrasanta dove, innamoratosi della regina Sybilla (Eva Green), si troverà a difendere Gerusalemme dagli attacchi di Ṣalāḥ al-Dīn (Ghassan Massoud), aizzato dal fanatismo belligerante dell’erede al trono di Gerusalemme e marito di Sybilla, Guido di Lusignano (Marton Csokas), e del sadico templare Reginaldo di Chatillon (Brendan Gleeson).
Il plot di Le crociate – Kingdom of Heaven coniuga il percorso di crescita individuale del più tipico eroe tragico scottiano con la speculare evoluzione di un contesto storico. Dal lutto iniziale all’investitura, l’iter di Baliano viene scandito da tappe simboliche – la scoperta delle proprie origini, il viaggio, l’incontro con la regina Sybilla, il confronto etico con l’Islam – che ricalcano i codici dell’epica cavalleresca. La cornice storica è quella della Terrasanta pre-terza crociata, segnata dal tracollo militare cristiano a Hattin e dalla riconquista di Gerusalemme da parte dei musulmani. Scott si muove tra queste coordinate per interrogarsi sul concetto stesso di “Regno di Dio”, inteso come spazio simbolico, utopico, di coesistenza ideologica. Non a caso una delle più celebri battute di Ṣalāḥ al-Dīn (“Niente… tutto”) racchiude il nucleo semantico dell’operazione.

Il gigantismo dell’immagine
L’apparato visivo di Kingdom of Heaven riflette la più pura, plastica epica scottiana. La fotografia di John Mathieson allinea la tavolozza cromatica alla progressione emotiva del protagonista: toni freddi e desaturati per il prologo francese (il lutto), gamme calde e polverose nel percorso mediorientale (la riscoperta di sé), fino a un ritorno conclusivo intriso di luce dorata, segnale di una pacificazione interiore e narrativa. Le scelte di regia privilegiano il campo lungo e l’uso della panoramica d’ampio respiro, aggiornando alle nuove tecnologie i modelli di David Lean (Lawrence d’Arabia) e Akira Kurosawa (Ran). L’assedio finale di Gerusalemme è un esempio paradigmatico di orchestrazione coreografica, un vero e proprio arrangiamento di macroinquadrature, soggettive ravvicinate, enfatizzate dai serrati skip-frame di Dody Dorn.
Dal canto suo Ridley Scott, da maestro della luce antinaturalistica quale è, bombarda le inquadrature di tutti i suoi feticci estetici: lens flare, controluce diffusi, cromatismi digitali estremi, fumo ambientale, schizzi di sangue e dissolvenze luminose al neon, che contribuiscono a costruire una percezione metafisica delle scene, quasi da cyberpunk nel passato. Questo approccio stilistico, che i più tenaci detrattori di Scott tacciano di eccessiva patinatura, mette in pratica con coerenza la sua teoria: l’idea della Storia come metafora esistenziale. La colonna sonora, firmata dall’allievo zimmeriano Harry Gregson-Williams costruisce un ambiente sonoro ibrido, in cui confluiscono elementi mediorientali, cori sacri, brani di repertorio (tra cui il Vide Cor Meum già udito in una precedente pellicola scottiana, Hannibal) e suggestioni bachiane. Un eclettismo musicale che riflette la natura interculturale del film, oltre a rinforzarne la tensione tra spiritualità e violenza.

Un cast all’insegna dell’archetipo e della dissonanza
Il casting, va detto, alterna scelte azzecatissime a interpretazioni meno riuscite. Liam Neeson (Goffredo), Jeremy Irons (Tiberias) e David Thewlis (il Cavaliere Ospitaliere) offrono ritratti memorabili di mentori eticamente complessi, mentre Eva Green disegna una Sybilla divisa tra istinto femminile e dovere politico, fragilità e potere. Il personaggio riceve ulteriore spessore nella director’s cut, che ne indaga le componenti più tragiche e materne: a man bassa tra le donne scottiane più memorabili, in una felice galleria che include Ripley di Alien, Thelma e Louise, Marguerite de Carrouges del recente, sottovalutatissimo The Last Duel.
Orlando Bloom, imposto dalla produzione per il suo appeal commerciale dopo le saghe de Il Signore degli Anelli e Pirati dei Caraibi – Scott aveva fatto il nome di Paul Bettany – si rivela monocorde e spaesato come protagonista, in mezzo a tanti colleghi più esperti. L’antagonista Guido di Lusignano, affidato a Marton Csokas, è interpretato con una carica teatrale a tratti forse eccessiva. In controtendenza, Ghassan Massoud (Ṣalāḥ al-Dīn) ed Edward Norton (Baldovino IV, il re lebbroso di Gerusalemme) si impongono come figure simboliche di equilibrio e ripudio del fanatismo.

Nota alla director’s cut de Le Crociate
La versione cinematografica, concentrata sulle sequenze d’azione a scapito delle sottotrame politiche e relazionali, fu accolta con freddezza dalla critica statunitense, in parte per via di un’erronea lettura ideologica del film (accusato, in alcuni ambienti, addirittura di islamofilia revisionista). Il box office USA fu deludente (poco meno di 150 milioni a fronte di un budget di 130), mentre in Europa e nei Paesi islamici l’opera ottenne un discreto successo, con un surplus di 70 milioni.
La director’s cut, rilasciata in home video, rivela tuttavia un’opera radicalmente diversa. Le sequenze reintegrate – il passato di Goffredo, la maternità di Sybilla, la scena del roveto ardente, alcune punte di violenza grafica più brutali – approfondiscono i nuclei simbolici del film e ne amplificano la portata antropologica e filosofica. Le crociate – Kingdom of Heaven diventa così un film dalla doppia anima: nella sua forma mutilata, un kolossal d’azione visivamente potente ma narrativamente zoppicante. Nella sua forma completa, una riflessione matura sul fallimento di ogni guerra ideologica e sulla possibilità di un’etica laica della convivenza. Più riflessivo ma non meno viscerale e potente de Il gladiatore, forse il kolossal scottiano dall’afflato politico più marcato.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.
