
In occasione dei novantadue anni di Roman Polański abbiamo rivisto La nona porta, un thriller esoterico di lusso che trasforma una caccia bibliofila in un labirinto di simboli proibiti.
A lungo il cinema di Roman Polański si è confrontato con l’esoterismo che scompensa la quotidianità. Da Rosemary’s Baby (1968) a L’inquilino del terzo piano (1976), l’occulto ha rappresentato una forza destabilizzante che trasforma il rapporto tra i personaggi e il mondo dentro cui essi si muovono. La nona porta (1999), libera trasposizione del romanzo di Arturo Pérez-Reverte Il club Dumas, è un’opera mai in fondo celebrata come meriterebbe, pur radicalizzando fino alle sue estreme conseguenze questo equilibrio tra convenzioni di genere e ambiguità tematica. Si può, dunque, rintracciare un fil rouge capace di intrecciare occulto e indagine — investigativa, intimista — che il regista franco-polacco filtra in ottica noir pregna di umorismo macabro.
La trama
Dean Corso (Johnny Depp), esperto di libri antichi, viene ingaggiato dal ricco ed enigmatico bibliofilo Boris Balkan (Frank Langella) per autenticare una delle sole tre copie superstiti de Le nove porte del regno delle ombre, manuale seicentesco di invocazione satanica attribuito ad Aristide Torchia. Il racconto si dispiega come un goticheggiante grand tour europeo, tra dimensioni metropolitane e spazi museali: ogni incontro, luogo e frammento testuale nasconde indizi sempre più sconcertanti. Il viaggio di Corso riecheggia la struttura katabasis simbolico: la sua discesa negli inferi della conoscenza proibita verrà scandita da presagi mortiferi e figure enigmatiche, tra cui una donna del mistero (forse un’intrusione soprannaturale) interpretata da Emmanuelle Seigner.

Una discesa nella conoscenza proibita
La mise-en-scène di Polański è il concetto di ‘art-horror’, ovvero la manipolazione della paura attraverso i controcampi fluidi di rivelazione e occultamento. La sequenza di apertura — essenziale e di tensione hitchcockiana — fa riconoscere la mano del grande regista con pochi, studiatissimi elementi: una scrivania, un nodo scorsoio, una lama di luce tra gli scaffali. Si tratta di catalizzatori visivi che, subito, accompagnano lo spettatore nell’atmosfera, invitandolo a speculare sugli angosciosi vuoti narrativi. Se nella controparte letteraria Pérez-Reverte indulgeva nel meta-letterario e nell’erudizione, sfociando quasi nel feticismo della carta, Polański si avvicina più alle costruzioni narrative di Angel Heart (Alan Parker, 1987) e The Omen (Richard Donner, 1976), senza lesinare sul consueto sottotesto critico nei confronti dell’edonismo collezionistico e della corruzione borghese — è un caso se La nona porta ed Eyes Wide Shut di Kubrick abbiano punti di contatto, oltre a condividere l’anno d’uscita? Probabilmente no.
Visivamente, La nona porta si radica nei chiaroscuri caravaggeschi di Darius Khondji (Se7en), che scavano nel peso di una conoscenza segreta. La scenografia di Dean Tavoularis — le librerie polverose, gli interni arcani della borghesia — richiama la sintassi architettonica de Il nome della rosa, in cui ricerca bibliografica e rito iniziatico annullano le proprie linee di demarcazione. La colonna sonora di Wojciech Kilar, basata su sinistri ostinati d’archi e performance vocali della soprano sudcoreana Sumi Jo, si adegua alla dimensione decadente già esplicitata nel Dracula di Francis Ford Coppola.

Un finale sfuggente
Il finale, spesso tacciato di opacità, offre un’escalation conclusiva nel simbolismo puro — Umberto Eco parlerebbe di “opera aperta” — spalanca un varco verso l’indicibile e fa del film una sorta di sequel spirituale (se non addirittura letterale) di Rosemary’s Baby. Pure il capolavoro polanskiano del 1968 si poneva in un rapporto privilegiato con l’ambiguità per coinvolgere il pubblico. E anche nel caso le critiche al film fossero fondate, La nona porta conferma quanto Polański rimanga il maestro degli spazi claustrofobici, in cui la conoscenza è al tempo stesso bramata e temuta.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.
