
Breve storia di una famiglia è l’esordio alla regia di Lin Jianjie, un dramma sottile sulla politica del figlio unico e le crepe del ceto medio cinese.
La politica cinese del figlio unico è ormai storia dal 2016. Eppure, il suo fantasma continua a serpeggiare tra i futuribili palazzi di vetro e cemento del gigante asiatico, plasmando l’identità contemporanea del ceto medio. Breve storia di una famiglia, debutto registico di Lin Jianjie applaudito al Sundance Film Festival, si inserisce in una tradizione di storie in cui un elemento esterno, impalpabile nelle motivazioni, penetra un nucleo domestico e lo scardina dall’interno. Ma, a differenza di recenti variazioni sul tema come Parasite (2019) o Saltburn (2023), Lin sceglie un tono sottilmente inquietante, in cui la tensione carbura senza deflagrare mai davvero nella violenza.
La trama
L’introverso adolescente Shuo (Sun Xilun), intento ad allenarsi alle parallele, viene colpito da un pallone da basket e si infortuna alla gamba. Il coetaneo Tu Wei (Lin Muran) lo soccorre e lo porta a casa per stringere amicizia. I genitori di Wei — la madre (Guo Keyu), ex assistente di volo, e il padre (Zu Feng), impiegato metodico — lo accolgono con crescente cordialità. Lei subisce il fascino del racconto della sua infanzia povera, sotto il giogo di un padre violento. Lui, inizialmente distaccato, scopre in Shuo un inaspettato compagno di conversazioni sulla musica classica e sugli studi accademici — al contrario, Wei, preferisce i videogiochi e la scherma. Quando il padre di Shuo muore in circostanze poco chiare, il ragazzo si trasferisce dai Tu. A quel punto in Wei s’insinua il dubbio: forse il nuovo arrivato vuole diventare il figlio che i genitori hanno sempre desiderato.

Come osservare un microrganismo
Breve storia di una famiglia si snoda come un duello silenzioso. Tra Shuo e Wei non esiste scontro aperto, ma un continuo scivolare ambiguo nelle zone d’ombra della complicità e della rivalità, espresso (come da prassi nel cinema orientale) più con i gesti che con le parole. Wei percepisce di essere spinto ai margini. Shuo, sotto la sua impenetrabilità, cova il bisogno disperato di ricominciare. Anche i genitori, a loro modo, fanno i conti con desideri e frustrazioni irrisolte. L’accoglienza di Shuo diventa così un gesto di riscatto: un modo per riparare, almeno simbolicamente, le ferite lasciate dalla politica del figlio unico e per concretizzare finalmente sogni genitoriali infranti.
Ogni soluzione formale supporta la tensione latente. Rallenty che dilatano il tempo diegetico, panoramiche composte con precisione simmetrica, inquadrature che isolano un piccolo cerchio di colore immerso nel nero. Specchi e schermi digitali — smartphone, tablet — frammentano i punti di vista, intrecciandosi con la fotografia glaciale di Zhang Jiahao. La sensazione generale è quella di star studiando dall’esterno un organismo misterioso (tra le immagini ricorrenti, il traffico urbano ripreso come fosse un groviglio molecolare). Merito anche delle elettroniche sonorità ambientali di Toke Brorson Odin, e di una recitazione corale che trasmette le crepe attraverso un rigido senso della misura.

Breve storia di una famiglia chiaramente non intende prestarsi alla lettura di atto d’accusa verso il ceto medio cinese, quanto studiarne l’antropologia. Ne esce un racconto rarefatto, in cui l’intelligente uso delle location fonde la mappatura di più città in un’unica metropoli, tanto moderna quanto priva d’anima. Peccato per gli affrettati cinque minuti finali, a fronte di un’impalcatura narrativa e di una costruzione dei personaggi tutt’altro che banali.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.
