
A trent’anni dalla sua uscita, Angeli perduti di Wong Kar-wai rimane un accurato ritratto dei lati più acidi, ipercinetici e febbrili della Hong Kong notturna pre-handover, tra neon abbacinanti e penombre di malinconia.
La trama
Ming (Leon Lai) è un sicario freddo e professionale, che dietro la sua patina glamour cela l’incapacità di gestire i propri sentimenti. La sua socia (Michelle Reis) lo ama e lo segue silenziosa come un’ombra, ovviamente non ricambiata. In parallelo seguiamo le avventure notturne di un giovane sordomuto (Takeshi Kaneshiro), spigliato e imprevedibile, che s’infatua di Charlie (Charlie Yeung) mentre la aiuta a ritrovare l’amore perduto.
L’estro di Wong Kar-wai in tutto il suo splendore
Hong Kong, 1995. Giunto all’apice del suo periodo più creativo e di successo, Wong Kar-wai ripesca il soggetto di un terzo segmento mai realizzato per Hong Kong Express (1994) e lo trasfigura in un controcampo più cupo e notturno: Angeli perduti (Fallen Angels). La produzione del film si svolse nell’ex colonia britannica nel consueto stile di Wong, tra frammenti improvvisati e tempi di ripresa dilatati.
Tant’è che Christopher Doyle, fidato direttore della fotografia, dovette interrompere i lavori per partecipare a Le tentazioni della luna di Chen Kaige. Wong fu costretto a proseguire la lavorazione con un altro direttore, rimanendo deluso dal risultato. Così, al ritorno di Doyle, gran parte del film venne rigirata, in un’eloquente dimostrazione d’incrollabili fiducia e lealtà nel suo sodale.
A differenza della struttura giustapposta di Hong Kong Express, Angeli perduti intreccia le sue due storie con un montaggio alternato, come fossero rette parallele di amori impossibili e desideri disperati che si sfiorano senza mai toccarsi mentre, sullo sfondo, vi è una Hong Kong notturna e dai colori saturi, su cui incombe il ritorno alla giurisdizione cinese del 1997.

Romanticismo e violenza in una Hong Kong di transizione
La cifra visiva di Angeli perduti danza tra romanticismo e violenza, si radicalizza nella scelta di usare quasi esclusivamente grandangoli e macchina a mano. Il risultato – “far vedere i personaggi da lontano anche quando si è molto vicini”, come spiegò Wong – deforma gli spazi, intrappolando i personaggi in angusti non-luoghi urbani. Le immagini non seguono la linearità di una sceneggiatura tradizionale: scorrono come un flusso di coscienza narcotico, con il ritmo ipercinetico di un videoclip, amplificato da una colonna sonora che echeggia le pulsazioni trip-hop dei Massive Attack. Mai i desideri di fuga e il timore dell’oblio di una generazione erano stati raccontati in modo così radicale, disperato e insieme elegante.
Fragilità sentimentale e frenesia dei corpi si alternano all’estrema violenza di scene in stile hard boiled. A tratti sembra di assistere a una riscrittura acida dell’immaginario di John Woo, in cui ogni pensiero e dialogo – frammentario, interiore – viene rubato alla notte.
Trent’anni dopo, il film conserva la forza di un ritratto di una Hong Kong che sopravvive solo nella memoria cinefila. Se Hong Kong Express era una dichiarazione d’amore ingenua e luminosa alla città asiatica, Angeli perduti ne costituisce il controcampo disincantato, anticipando la frammentarietà liquida del cinema a venire (Made in Hong Kong di Fruit Chan, Time and Tide di Tsui Hark).

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.
