Havoc, la recensione del nuovo film di Gareth Evans

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Havoc, la recensione del nuovo film di Gareth Evans

A distanza di sette anni da Apostolo e cinque dall’inizio dell’incursione nella serialità televisiva con Gangs of London (giunta alla terza stagione), Gareth Evans torna sugli schermi con Havoc, action thriller dall’impianto noir carico di iperviolenza e adrenalina disponibile su Netflix.

La trama

Tom Hardy e Jessie Mei Li in una scena di Havoc

Ladruncoli di basso profilo Johnny, Mia, Wes e Charlie si sono impossessati di un camion carico di lavatrici dentro le quali, in realtà, vi è nascosta della cocaina. Durante l’inseguimento della polizia, il detective della narcotici Cortez rimane gravemente ferito. Poco dopo, i quattro portano la droga a Tsui, il capo della triade locale, in modo tale da saldare un debito contratto da Mia. A interrompere l’incontro, però, sopraggiunge un commando mascherato che apre il fuoco su tutti i presenti, uccidendo Tsui e i suoi uomini. Un massacro da cui Mia e Charlie riescono a fuggire, così come Wes e Johnny. Sulla scena del crimine arriva il detective della omicidi Patrick Walker (Tom Hardy), affiancato dall’agente di pattuglia Ellie (Jessie Mei Li). A complicare la situazione è la scoperta di Walker che a essere coinvolto nel caso è proprio Charlie, il figlio del magnate e candidato a sindaco Lawrence Beaumont (Forest Whitaker) che ha sul libro paga tanto Walker quanto Vincent (Timothy Olyphant), caposcadra di Jake, Hayes e del ferito Cortez.

Il ritorno di Gareth Evans tra sangue a iosa e azione non stop

Tom Hardy in una scena di Havoc

Gareth Evans o lo si ama o lo si odia, e questa duplice possibilità di scelta riesce a espletare la natura del regista, ossia quella di autore di genere capace, però, di riscriverne le coordinate con risultati magistrali oppure, come qualche detrattore affermerebbe, di mestierante fine a se stesso, votato a una messa in scena iperbolica ed estrema. Qualunque sia la visione in merito, si può affermare che Evans è sì un mestierante ma di culto poiché, con una sola manciata di titoli composta da Merantau, The Raid – Redenzione e The Raid 2: Berandal è riuscito a entrare nell’alveo dei nomi dei grandi registi del cinema action così rendendolo, de facto, un mostro sacro.

Havoc, sesto lungometraggio del regista recentemente entrato a far parte del catalogo di casa Netflix, è un ulteriore step nella sua filmografia, un ritorno alle origini parallelo alla serialità televisiva di Gangs of London e dopo la sperimentazione horror (già assaporata cone Safe Haven, episodio di V/H/S/2 co-diretto con Timo Tjahjanto) con Apostolo nel 2018. Riprendendo in mano la commistione di generi e le tanto amate geometrie d’azione, Havoc inizia come un classico poliziesco, per poi vivare a tutta velocità – letteralmente – verso i lidi dell’action thriller senza soluzione di continuità.

Tom Hardy in una scena di Havoc

Nel mezzo,  però, ci sta tanto immaginario noir tra sbirri corrotti ma con una morale, assassinii a sangue freddo, una metropoli senza nome (lectio di quel capolavoro di David Fincher che è Se7en) cupa, nevosa e notturna in cui l’unico barlume di luce è quello dei neon per le strade e, paradossalmente, quello delle luminarie natalizie poiché, ironia della sorte, l’intera vicenda si svolge alle porte del Natale, quasi a simboleggiare una ricerca catartica di redenzione.

Al pari di The Raid, Evans crea un concatenamento di scene d’azione, suo vero e proprio marchio di fabbrica, senza dimenticare la giusta componente di introspezione che fa da collante tra una furiosa sparatoria e un combattimento corpo a corpo che fanno di Havoc l’ennesima prova di quanto il cinema di questo regista sia pura immagine-movimento deleuziana senza sosta alcuna. Infatti, se c’è un aggettivo con cui descrivere sinteticamente il lungometraggio, questo è furente poiché la violenza anzi, l’iperviolenza, abbonda dall’inizio alla fine insieme a un’elevata dose di adrenalina. Sono corpi-bersaglio quelli di Evans sdoganati da tanta cinematografia asiatica tra anni Ottanta e Novanta (a cui si ispira molto), su tutti quella di John Woo, ripresi tanto da lui quanto dall’action dell’ultimo decennio come nel caso del franchise di John Wick. Lungi dall’essere un film per tutti, Havoc necessita di spettatori con lo stomaco forte poiché tra colpi di pistola e fucile deflagrati a bruciapelo, headshot, ossa spezzate e combattimenti mortali all’arma bianca, il brutale bodycount cresce a dismisura senza lasciare spazio alcuno all’immaginazione.

Un cinema di intrattenimento, ma anche di tecnica e riflessione

Tom Hardy in una scena di Havoc

Di certo, il lavoro di Gareth Evans non si esaurisce con il semplicistico marchio di cinema di intrattenimento, nonostante alla base vi sia una esplicità volontà registica di intrattenere e “divertire” lo spettatore in quanto, osservando il tutto con la giusta lente e con una adeguata forma mentis, sia i precedenti film sia Havoc hanno una morale di fondo che, scena dopo scena, emerge in tutta la sua schiettezza.

Il Patrick Walker interpretato dal perfetto Tom Hardy è il più archetipico dei poliziotti: corrotto, violento con i criminali, sporco eppure pregno di una propria morale che lo porta a raddrizzare il tiro, a espiare le colpe di un passato gravoso e di un presente non meno difficile da vivere, costellato da una vita privata crollata in pezzi (è separato e ha una figlia di sei anni che vede poco) e da una carriera sul filo del rasoio, macchiata dai soldi sporchi e dal sangue altrui. Eppura la redenzione arriva e gli permette di fare la cosa giusta, ossia impugnare pistola e “scudo” (il distintivo), e muoversi tra doppi e tripli giochi mentre avversari di ogni foggia e i suoi stessi colleghi cercano di far fuori lui, Mia e Charlie.

Tom Hardy in una scena di Havoc

Ma, al di là della catarsi del detective che prende le mosse da metà film in poi e lo chiude con tanto di buoni insegnamenti da trasmettere a chi, ancora, dietro l’uniforme cela un cuore ancora puro, vi è l’obbligo di sottolineare come Havoc sia una bellezza scenotecnica per gli occhi: che si tratti di un agguato in mezzo al traffico congestionato, di una sparatoria al chiuso, un velocissimo inseguimento o ancora un durissimo combattimento corpo a corpo in spazi ristretti, Gareth Evans delizia con virtuosismi registici eccezionali, atti ad aumentare ancor di più la sensazione di frenesia che scene e sequenze trasmettono durante la visione.

Havoc è tutto ciò che si può chiedere al cinema d’azione del XXI secolo: una storia solida e matura che pesca dall’immaginario collettivo senza però essere un mero copia e incolla, tanta (ma tanta) azione, violenza estrema e iperreale, un pizzico di citazionismo (i ralenti alla Sam Peckinpah e il già citato John Woo) e – soprattutto – una regia fatta con occhi, animo e cuore che lo rendono un film “vivo” e non un esercizio di stile commerciale.

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