28 giorni dopo e 28 settimane dopo: excursus sul dittico horror

28 giorni dopo (2002) e 28 settimane dopo (2007) spiccano per impatto visivo e tematico sulla media degli horror post-apocalittici contemporanei. Li abbiamo rivisti in occasione dell’uscita in sala dell’ultimo capitolo della saga, 28 anni dopo.
Quando uscirono nei primi anni Duemila, 28 giorni dopo e 28 settimane dopo rappresentarono una scommessa vinta per il genere horror. Riflessione potente e stilisticamente caratteristica sulle dinamiche sociali in un contesto di panico collettivo, questo dittico ha intercettato ansie e crisi esistenziali che, in tempi recenti segnati da pandemie e tensioni geopolitiche, suonano profetiche.
28 giorni dopo (Danny Boyle, 2002)
In un’Inghilterra devastata da un virus della rabbia particolarmente aggressivo, il giovane Jim (Cillian Murphy) si risveglia dal coma in un ospedale di Londra, solo per scoprire che la società è collassata e pochi sopravvissuti lottano per la sopravvivenza in un mondo dominato da infetti rapidi e violenti.
Questo primo capitolo si può leggere come una rilettura audace, frenetica e viscerale di un certo canone romeriano (La città verrà distrutta all’alba). La rielaborazione che il regista Danny Boyle, lo sceneggiatore Alex Garland e il direttore della fotografia Anthony Dod Mantle fanno dell’atavica paura di remoti contagi globali (nel 2002 il Covid-19 era ancora lontanissimo dalla realtà) si fa forte di un uso dell’immagine digitale lurida e frammentata, in pieno stile riprese documentaristiche “rubate”. Il tutto mentre incombe una minaccia infettiva, astratta e disarmante.
La suggestiva sequenza iniziale (Jim che si aggira in una Londra desertica e angosciante) rende palpabili i sapori e gli odori dell’Apocalisse. Ma è nel secondo atto con i militari che trova spazio lo studio di Garland sul delirio collettivo alla fine del mondo. L’evoluzione speculare dei due personaggi principali (lo spaurito Cillian Murphy che abbraccia lentamente l’animalità necessaria alla sopravvivenza, l’inflessibile Naomie Harris che riscopre fragilità ed empatia) è ulteriore pregio di un horror sorretto da una colonna sonora di grandissimo impatto.
28 settimane dopo (Juan Carlos Fresnadillo, 2007)
Sei mesi dopo l’inizio dell’epidemia, Londra viene dichiarata zona sicura e iniziano le operazioni di ricostruzione sotto il controllo delle forze NATO. Tuttavia, un nuovo focolaio del virus mette in crisi il fragile equilibrio raggiunto, portando a nuovo caos.
Cinque anni dopo, con 28 settimane dopo, il testimone della regia passa allo spagnolo Juan Carlos Fresnadillo, ma l’eco estetico di Danny Boyle resta udibilissimo. Nonostante la perdita dell’elemento sorpresa, il film si configura come un sequel robusto, in continuità stilistica con il predecessore, ma narrativamente più d’ampio respiro. Da un lato il prologo e le scene d’azione violenta ripropongono il convulso caos visivo di Days (l’aura subliminale dei frame, grida, sangue, fotografia sgranata, i riff chitarristici di John Murphy), dall’altro c’è un’inedita Londra ridotta a zona di guerra e una coralità generale che si contrappongono alla stilizzazione della solitudine di Boyle.
Il rimasticamento post-moderno del film d’infezione (la sequenza prima dei titoli di coda sembra aggiornamento rabbioso e digitalizzato dei finali pessimistici di Lucio Fulci) si impreziosisce di una sottotrama che sviscera il tema della colpa e dell’impossibile redenzione, elevandosi così sulla media del genere.

Libraio, consumatore seriale di lungometraggi con una passione famelica per tutto ciò che arriva dall’Estremo Oriente, feticista dei libri editi da Taschen. Ogni tanto scrivo cortometraggi.